Parte
prima
Accanto al volumetto de La Mite, sulla scrivania della
giovane gettatasi dal IV piano del condominio al civico 13 in via della
Quintessenza, trovarono un biglietto con su scritto a biro nera, in grafia chiarissima:
Sulla mia lapide inciderete: Una vita senza macchia e una morte
nell’infelicità assoluta. Ma rinascerà, per assaggiare tutti gli odori che non
ha conosciuto la prima volta.
Un capannello di persone, inesorabile e vociante. Il corpo esanime giaceva,
nella grande pozza quasi nera, scomposto, la frangia ribelle bagnata
sulla fronte rivolta al cielo e le labbra rosse e screpolate, increspate
da un lieve sorriso. Si sarebbe potuto giurare che su quel volto l’ironia
stesse ancora sfidando tutti, compresa la morte. Gli arti inferiori, non
allineati al tronco, nella posa orribilmente innaturale della frattura
multipla. Ogni dettaglio della figura femminile al centro dell’attenzione in
quel freddo primo pomeriggio dicembrino, pareva sottolineare
atrocemente il carattere brutale dell’ineluttabilità della morte. Presto
arrivarono gli agenti della scientifica e gli spettatori iniziarono a scemare.
Erano tre uomini e tre donne. Il più autorevole dei sei, un uomo sulla
cinquantina, dagli occhi scuri e i capelli brizzolati ondeggianti sulla fronte
ampia. Impartiva ordini a tutti, con voce calma, accompagnando ogni
parola con ampi gesti delle grandi mani ben fatte. Tutta la sua figura emanava
un’aura di sicurezza, finanche mentre si rassettava l’impermeabile ghiaccio.
Finito che ebbe di dare istruzioni agli altri, l’uomo disse che della
ragazza si sarebbe occupato personalmente. Conosceva il medico legale e gli
chiese di poter assistere all’autopsia. In laboratorio, l’uomo fu lasciato solo per un istante con la salma.
Accertatosi di non esser scorto da nessuno, estratto un tampone, lo passò sulle
labbra senza colore del cadavere. Con estrema calma richiuse lo strumento
nell’astuccio e lo ripose nella tasca dei pantaloni. Il medico legale giunse e
compì il proprio dovere.
Parte seconda
Facciamo un passo indietro di
poco più di quattro mesi, e introduciamo finalmente il protagonista di questa
storia. Si tratta di un uomo affatto singolare.
Ormai da molto tempo, entrava
in qualunque negozio gli capitasse a tiro, quasi solo in cerca di profumi; usciva
praticamente solo per quello; come per rispondere a un’urgenza
fisiologica, o se preferite, per calmare le narici costantemente malate
d’attesa. E si sorprendeva, così, a ciondolare distrattamente tra gli
scaffali senza uno scopo apparente.
E solo una volta sicuro
di non esser osservato da occhi indiscreti, entrava finalmente in azione.
Come quegli individui incensurati, completamente innocui, che fanno strepitare
gli allarmi alle casse dei supermercati, per uno snack, o una stecca di chewingam caduti in
tasca per caso. Fino alla fine, conducono il piccolo gioco con maestria. Lui
era attratto morbosamente dagli odori, e a ciascuno faceva corrispondere un
ricordo. Non è difficile intuire che il nostro s’avvicinasse alla merce
odorosa come ci si avvicina alle scatole di cianfrusaglie lasciate a
impolverarsi in soffitta. Impiegava la memoria come una dispensa di sensazioni
olfattive, e pareva non esistesse più al mondo un solo profumo che non riconoscesse.
E dal momento che non esiste occupazione senza alcuna implicazione con gli
odori, la sua memoria era a lavoro 24 ore su 24. Questa incessante attività
mnemolfattiva non lo lasciava tranquillo un istante. Ovunque si trovasse, era
come ossessionato dall’idea di poter perdere qualcuna delle sensazioni
olfattive che l’aria offriva alle sue narici smaniose. Passava le
giornate a ordinare il magazzino mentale delle corrispondenze tra odori e
ricordi. E non ne era mai soddisfatto. Vi notava sempre un angolo sguarnito o
un’etichetta attaccata male. Finché un tardo pomeriggio di fine luglio, un
tizio non lo sorprese intento ad annusare una boccetta dalla forma vitrea
di mezzo busto femminile. L’uomo colto in flagranza di reato, se ne spaventò a
morte. Con uno scatto, posò la boccetta al suo posto, tentando di darsi un
contegno. Ma aveva cambiato istantaneamente colore. Non sapendo che fare,
girò i tacchi per avviarsi all’uscita del centro commerciale. Ma il tizio, che
non aveva smesso di fissarlo, gli disse qualcosa. Il tossico degli odori non
capì, si confuse e tacque. Lo sconosciuto non insistette oltre, e lo lasciò
andare, seguendolo tuttavia con gli occhi, mentre gli voltava le spalle con le
narici ancora pulsanti delle figure olfattive lasciate a metà nell’area
cerebrale dedicata.
Da quel momento, lo
sconosciuto continuò a pedinare l’uomo dall’olfatto prodigioso durante tutti i
suoi "spuntini". E non visto, continuò a studiarlo per mesi, addirittura
sul posto di lavoro. Finché una sera di fine settembre non trovò un pretesto
plausibile per avvicinarlo e metterlo alle strette.
Gli propose un colloquio di
lavoro. L’uomo, precario per definizione, non poté rifiutarsi e accettò di
seguirlo. Salì sulla sua auto. Non ci furono convenevoli. Si andò subito al
dunque. Voleva che lavorasse per lui, e subito, per giunta. Non avrebbe
accettato un rifiuto, pena la morte. Ma in cosa sarebbe consistito il suo
ruolo, di preciso? Il tipo losco gli fece un quadro veloce dell’affare. Accompagnava
le parole con sguardi significativi dai
grandi occhi neri molto lucidi. Cercava il profumo che lo facesse vivere
di rendita fino alla morte. L’aveva cercato per anni invano. Fino ad allora,
aveva ottenuto solo essenze volgari, di scarso pregio. Nulla di neanche lontanamente
paragonabile al risultato cui ambiva. Egli voleva l’essenza del dolore,
s’era convinto che solo un’essenza simile sarebbe stata all’altezza del proprio
scopo. Sarebbe stata l’essenza per antonomasia, la somma di tutte l’essenze del
mondo in una. “Perché il profumo…”, diceva l’uomo alzando un po’ la voce, ma
più parlando a se stesso che all’interlocutore paralizzato dallo stupore,
“…il profumo è la cifra dell’umano. E l’umano non è altro che un distillato del
dolore. E tu, mio giovane amico, tu fai al caso mio perché in te hai un potere
che a pochi è dato possedere. Tu sai riconoscere l’odore del dolore a
chilometri di distanza." Il nostro capì subito che l’uomo faceva sul serio
e nemmeno tentò di contraddirlo, incalzato dal terrore. Ma in cuor suo, il
giovane, sulla trentina, ma dall’aspetto dell’adolescente timido e un
po’ impacciato, non sapeva nemmeno da dove iniziare per gestire quella
situazione e uscirne indenne. Si sistemò nervosamente gli occhiali dalla spessa
montatura sul naso ed inspirò, con enorme preoccupazione. La grandezza di
quegli occhi, nella loro insicurezza nocciola, appariva affatto sproporzionata
all’età del titolare del viso in cui erano incastrati. Ed era il timbro
sorprendentemente limpido, forse, a impedire a chiunque l’avesse sentita anche
solo una volta, per caso, di dimenticare la sua voce. Una voce molto pacata,
invero, eppure costantemente soggetta alla tensione a una nervosa
accelerazione dei propri ritmi; sempre in odor di difesa da tutto e tutti, e
molto spesso prodotta in una nota di soffusa ironia che gl’incurvava
l’angolo sinistro della bocca e gl’inarcava i sopraccigli sugli occhi, sempre pronti
ad accigliarsi. E anche quello stringersi delle ciglia marrone
scurissimo, rientrava a pieno diritto nella lista dei dettagli che
contrastavano violentemente con la bonarietà d’insieme della minuta figura del
giovane. E sempre frutto dell’ironia di cui eran sottese tutte le sue
azioni, erano anche i rari sorrisi nei quali scopriva i denti
bianchissimi e leggermente distanziati tra loro, esattamente come quelli di
certi adolescenti refrattari all’uso dell’apparecchio. Ma la tensione nervosa
spesso lo privava dell’unica qualità di cui davvero si vantasse: la loquacità.
Così ancora una volta, si confuse, e tacque, a onta di tutti i pensieri che in
quel momento gli si agitavano febbrilmente dietro la fronte, sulla quale
iniziarono a fare la loro comparsa copiose piccole perle di sudore. Lo
sconosciuto al volante aveva cessato di parlare. Ormai l’accordo era stato
suggellato, anche se l’uomo dall’olfatto sopraffino non aveva profferito
parola.
Parte terza
Da quel giorno di fine
settembre, il giovane non seppe più nulla dello sconosciuto e del suo singolare
affare. Naturalmente, seguirono mesi di grande tensione per il nostro.
Cercava di continuare la vita
di sempre, ma anche a lavoro avevano notato il suo turbamento. Lavorava tutti i
giorni in un locale, dalle 21.00 alle 6.00. Sorridere e versare drink e
preparare caffè e servire e conversare a comando, e ascoltare confidenze da
estranei per ore,e rassettare e riordinare, ed essere ipocritamente
gentile, ormai gli riusciva perfettamente.
Nessuno avrebbe potuto sospettare
il suo intimo disagio a ogni tono confidenziale, a ogni sguardo insistente.
Per essere precisi, più che
vivere, egli non faceva altro che dissimulare tutto il tempo. E gli avventori
del locale ogni notte, non gli si avvicinavano che per assistere allo spettacolo
del sorriso ciondoloni intorno al suo collo esile sul quale le vene si
ingrossavano sempre nello sforzo della finzione. E a ogni moto del capo il
cappio nero gli si stringeva fino a che il viso non si faceva blu. Non passava
notte senza che qualcuna non lo invitasse a uscire. Ma l’uomo da lungo tempo
aveva smesso di fidarsi delle donne. Non era mai sgarbato con alcuna. Al
contrario era irresistibilmente gentile con ciascuna, ma a nessuna si
arrendeva, tenace come la più ritrosa delle fanciulle. Ormai da qualche tempo,
tra le abitué era S., una dottoranda in Lingue e Letterature slave in
città per un corso sul legame tra odori e memoria, tenuto da un tale prof. Harry
Bersgon. Sulla trentina, mora, capelli cortissimi e occhi scuri, S. non era proprio
quella che si definisce una bella ragazza. Eppure aveva il potere di far
pendere per ore dalle proprie labbra il proprio interlocutore. E tutto faceva
pensare che tale potere le venisse dalla voce. Era d’un tono assai più basso
della media delle voci di donna, e molti la trovavano estremamente gradevole.
Ma S. per ironizzare, avrebbe continuato a raccontare a tutti l’aneddoto dello
spasimante della coinquilina che al telefono s’era ingelosito credendola un
uomo. Sin dall’inizio S. aveva provato grande interesse per il barman. Ma
naturalmente il nostro non s’era mostrato più gentile con lei di quanto non lo
fosse con tutte le altre. Ogni tanto ella s’illudeva d’un piccolo cedimento, ma
s’ingannava puntualmente. “Le persone
che tagliano i capelli cortissimi sono più sfrontate della media, perché
lasciano che gli altri vedano i
loro pensieri pulsare attraverso il
cranio.” s’era lasciata sfuggire ella, una volta, durante una delle loro
conversazioni su tutto e su niente. E quella caratteristica esteriore li
accomunava.
Una notte, come ormai da
circa due mesi, dallo strano incontro con lo sconosciuto della faccenda del
profumo del dolore, il nostro si sentì particolarmente inquieto. Decise di
gestire la paranoia sbronzandosi. A onta del lavoro che faceva, il nostro
tossico non reggeva minimamente l’alcool. Così gli bastarono pochi bicchieri
per perdere la cognizione della realtà. Non s’accorse nemmeno del tizio che,
appena arrivato, l’osservava da un
angolo, immerso nella penombra e sorseggiando un liquido bluastro, con un
sorriso poco rassicurante. Il tipo si godette tutta la scena che seguì. Il
giovane barman ormai completamente sbronzo non si reggeva più in piedi.
Vaneggiava ormai nell’ilarità dei pochi superstiti nel locale. Da una finestra
iniziavano a filtrare le prime luci della pre-alba. A un tratto si sentì le
mani piccole e fredde di qualcuno sugli occhi e si girò di scatto. La solita
stangona gli sorrise con piglio civettuolo. Non vista, anche una mora dai
capelli a fiammifero, dal viso cupo e qualche sbavatura di nero
all’attaccatura delle gote, assistette alla scena, in silenzio. Ma pareva
seguirla con molta curiosità, a
giudicare dagli occhi spalancati. E neanche questo particolare sfuggì, all’uomo
che sorseggiava soddisfatto il suo drink bluastro.
Al mattino al risveglio nel
proprio appartamento, non era solo. Udì una voce dall’inflessione marcata
chiamarlo dalla cucina. S’alzò dal letto, poggiò i piedi sul parquet, e a
fatica impartì alle gambe pesanti l’ordine di condurlo dall’ospite. A tenerlo
sveglio durante il tragitto fu solo la scia del profumo del caffè appena fatto.
Diede un’occhiata alla donna con la quale aveva passato la notte e non la
riconobbe. Apprese solo allora d’esser alla presenza di C.N.
Era molto bella e nessuno
avrebbe potuto dire di no a quel corpo perfetto, al morbido miele delle onde sulle spalle e a quella
bocca volitiva. Tra le altre cose notò che mescolava la cadenza americana a
quella romanesca con perfetta disinvoltura, senza preoccuparsi affatto
dell’effetto comico dell’insieme. La osservava mentre tentava di ricordare
invano qualche particolare della notte appena trascorsa. Alla fine dovette
arrendersi. La qual cosa non dovette evidentemente far piacere a C.N., a
giudicare dal rumore sordo della porta dell’appartamento che si richiuse alle
sue spalle facendo tremare anche la tazzina tra le mani del giovane. Rimasto
finalmente solo, tentò di fare mente locale delle cose da fare in quella
giornata iniziata in modo tanto inconsueto. Per tentar di smaltire la sbornia
colossale, bevve quanto più caffè avrebbe potuto contenere il suo corpo. Ma era a pezzi.
Aggrappato al water dovette sputare anche l’anima. Ma a un tratto s’accorse
d’una mail di S. ricevuta già dalla notte:
Per
favore, vieni prima delle 15.00, da me, per l’addio. S.
Si ricordò che gli aveva
accennato, una notte, dell’imminente conclusione del corso che stava seguendo.
Aveva meno di mezz’ora per
arrivare a casa di S. Si vestì alla meglio, si gettò il cappotto sulle spalle
senza infilarlo e corse fuori. La via in cui abitava la giovane era a pochi
isolati. Arrivato a destinazione, s’accorse che S. aveva lasciato la porta
aperta. Entrò e la voce ferma e bassa di S. lo chiamò, dalla camera da
letto-studiolo. Era sola. Dalla soglia la vide dalla porta aperta della piccola
camera, in piedi sul davanzale della finestra.
“Svelto, prendi la busta sul
tavolino alla tua destra, prima che sia troppo tardi”.
L’uomo la guardò mentre il
terrore iniziava a dominarlo. In un attimo si coperse di
sudore. Non disse nulla e obbedì all’ordine. Prese la busta e la mise in tasca.
L’avrebbe letta solo qualche ora più tardi. S’udì una risata strana, un fruscio
di vesti, ma fu tutto un attimo. Un tonfo sordo. Non avrebbe potuto salvarla in
ogni caso. Ella aveva calcolato tutto alla perfezione perché lui la vedesse
un’ultima volta senza poterle però rovinare il gioco. Non sapeva
cosa fare. Gli sembrò tutto un incubo. Era tutto troppo grottesco per esser
vero. Sperò d’esser solo preda dei fumi dell’alcool. Ma non era così. S. s’era
gettata davvero dalla finestra della sua piccola camera da letto-studiolo. Non
era più. In strada cominciava già ad accorrere la gente. Presto sarebbe
arrivata la polizia a rovistare nel suo appartamento. A questi pensieri gli
sembrò che il suo corpo stesse assumendo la pesantezza del piombo. Non seppe
trovare altro di meglio da fare che andarsene. Non chiuse nemmeno la porta. Del
resto ella l’aveva lasciata aperta prima di gettarsi nel vuoto. Arrivò in strada
e gli sembrò fosse tutto una brutta ripresa d’un telefilm poliziesco americano.
E la scena era agghiacciante e tutte le
persone attorno esibivano entusiaste l’espressione degli sciacalli
in agguato. Non resse oltre allo spettacolo. Se n’andò con le mani in tasca, il
mento sul petto, gli occhi asciutti e dolenti. Il cuore gonfio delle lagrime
che pungevano le palpebre senza poter uscire. Vagò per ore, dimentico di se e ancora
incredulo. Si ricordò della busta. La prese con un gesto di rabbia rischiando
di perderne il contenuto. Nella busta erano un biglietto scritto in
caratteri minuti molto fitti e un manoscritto di poche pagine riempite davanti
e dietro. In cima alla prima era leggibile il titolo “Appunti e istruzioni per
scrivere la Storia d’un tossico degli
odori.” Spiegò il biglietto e lesse:
Stanotte
avrei voluto chiederti d’uscire, ma eri già in ottima compagnia. Buon
divertimento, e complimenti a lei, scommetto che per averti convinto, deve
essere davvero una donna bellissima e libera, di quelle che spariscono dopo il
primo incontro e che ti fanno pentire di non aver chiesto loro il numero.
Ti auguro tu possa trovare un giorno la donna capace di guadagnare di
nuovo la tua fiducia. Goditi la vita, godila come un pazzo, se non lo hai
ancora mai fatto. Godila anche per me, d’accordo? P.S.: Grazie dei drink
a scrocco, come barman sei insuperabile. Mi mancherai, quando sarò via. Ti
voglio bene.
S.
Note
Perdonerete, egregi signori,
le intemperanze di tono nel racconto, ma quello che avete appena letto è
il resoconto allucinato redatto da un uomo sconvolto.
Si tratta, nella fattispecie,
di un tributo alla signorina S.M., della quale ho esaudito le ultime volontà,
attingendo dal manoscritto di suo pugno intorno alla vicenda di cui, suo malgrado,
fu la vera protagonista. Sue sono tutte le descrizioni a mio carico, nonché
tutte le analisi più lucide su fatti che in certo modo, in parte, ella conobbe
dalla mia stessa bocca.
Un contributo determinante
nella stesura delle presenti memorie m’è venuto dal signor O.K., il capo della
scientifica, nonché mente del programma RPD, che non ho mai più rivisto e del
quale non ho saputo più nulla, dal giorno del decesso della signorina
S.M. Se non altro,immagino sia l’unico ad aver tratto profitti da tutta questa
vicenda. Chiunque ritrovi il presente manoscritto,
è libero di farne quel che preferisce, ma volendo farmi cosa gradita, potrebbe
tentare di farlo pubblicare da un editore. Per motivi che non riporto, non mi è
più possibile occuparmene personalmente. Grazie in ogni caso.
C.P.
10 dicembre 2012, cittadina
di M.
Nota del traduttore
Il testo presente è una delle
pubblicazioni presentate al convegno sulla Ricerca mondiale intorno ai suicidi,
tenutosi a Providence lo scorso dicembre 2023. Schematizzando, il rapporto
finale della ricerca ci ha indotti a sostenere che non si dia alcuna
possibilità di produrre una casistica di motivazioni e di concatenazioni tra
cause ed effetti che spieghi il sensibile aumento di suicidi negli ultimi
vent’anni. I fatti ci dimostrano piuttosto, che si danno casi di suicidio dei quali non si può fornire alcuna spiegazione razionale.