domenica 24 novembre 2013

Lettera a uno sconosciuto.

So che non leggerai queste frasi anche se le scrivo solo per te.
So che la nostra amicizia non è mai iniziata ma mi piace pensare che se mai iniziasse sarebbe una di quelle che potrebbero cambiarmi la vita per sempre.
So anche che in fondo, anche così mi hai cambiato la vita, mi hai aiutato a stare meglio, mi hai dato tanto come non saprai mai di avermi dato.

So che è inutile scrivere tante sciocchezze; che non potrò mai incontrarti per strada per caso; che non parleremo mai per ore al telefono; che non camminerò mai al tuo fianco, nè potrò mai chiederti di ripetere di nuovo qualcosa, di avvicinare di più la tua bocca al mio orecchio, o di spiegarmi meglio un concetto, no; so che  non mi farai mai leggere nulla in anteprima, che non mi chiederai mai un consiglio; che non faremo mai un giro alla domenica nel parco, che non conteremo mai le foglie giallo-marroni per terra sdraiati all'ombra d'un albero secolare; che non rideremo mai insieme delle gaffe d'un conduttore televisivo; che non ci commuoveremo mai insieme per la scena triste d'un film; che non vedrò mai  sui tuoi occhiali il riflesso della luce d'una sala d'un cinema, o d'un'alba, o d'un tramonto; che non ti chiederò mai cosa stavi cucinando, o quanto zucchero metti nel caffè; che probabilmente non riprenderemo mai il discorso sui padri che iniziammo solo per caso.
Non faremo mai nulla insieme, non ci conosceremo mai, non imparerò mai a non sbagliare con te, a contenermi, a non tirare troppo la corda. Eppure so anche molto di più , e  lo so con tutta la rabbia, l'amarezza e il veleno che certe constatazioni loro malgrado è giusto portino con loro.
Perché se anche ti ostini a continuare a usare  la scusa della paura, lo sa bene chi hai preso per mano attraverso una folla di curiosi, innanzi ai miei stessi occhi ottusi, che sai essere molto coraggioso se solo ne hai voglia.

Ma c'è anche un'altra cosa che so, ed è che non smetterò mai di chiedermi come sarebbe se fosse diverso da come è.

Le elucubrazioni contorte d'un povero megalomane solitario ovvero riflessioni circa il successo del girovagare del principe Miskin alla volta dell'abitazione di Rogozin


Come era arrivato in quel posto, non  lo ricordava.
Come tutte le volte che camminava  distrattamente imboccando vicoli sconosciuti in paesi  familiari.
Doveva  aver attraversato tutto l'abitato a occhi chiusi, nella notte, senza aver incontrato neppure una luce.
Aveva piovuto molto e pioveva ancora.
Pioveva  pioggia acida sulla terra che la rifuggiva, inorridita.
Pioveva sulla vegetazione stanca e sfigurata.
Come era  arrivato in quel posto desolato e lugubre, non riusciva  proprio a ricordare.
Come aveva fatto il principe Miskin a trovare l'abitazione di Rogozin senza conoscere neppure la strada?
Non dovette averlo  mai capito neanche il principe stesso.
Come aveva fatto tutto quel  tempo a camminare da solo per strada mentre tutti gli altri assistevano alla scena divertiti,  vedendolo gesticolare come se parlasse con qualcuno e senza accorgersi che quello fosse un monologo?
Come aveva fatto a cercare le  espressioni migliori, la giusta intensità dello sguardo, le movenze delle mani,  il ritmo del passo,  il modo di ravviare i capelli, la luce da farvi filtrare attraverso, l'argomento più originale, ogni minimo dettaglio come se parlasse a qualcuno?
Perché l'aveva  fatto e come aveva potuto essere così vanitoso e magalomane, come?
Come aveva potuto essere così superficiale e immaturo?
Come aveva fatto a non curarsi della gente che assisteva al proprio delirio d'onnipotenza, alle pose forzate, alla ricerca dell'intonazione più convincente, sa ssssa prova, della frase più a effetto, dell'espressione più drammatica, dello sguardo più truce, dell'incurvatura più amara degli angoli della bocca?
Come aveva fatto a non accorgersi dell'effetto comico di tutto questo sforzo che lo lasciava esausto  e con un pugno di mosche, magari a osservarle mentre gli morivano tra le dite con le viscere purulente in bella vista.
E ora che egli stesso si era confuso tra i passanti che lo additavano come lo schizofrenico di strada di turno; ora che si autoadditava come un povero idiota, aspirante attoruncolo da quattro soldi, pierrot giullare mai andato a scuola; ora che si vedeva dal di fuori, come tante volte aveva visto qualcun altro cercare l'approvazione degli altri, mortificando a quel modo la propria dignità, ora rideva lui stesso.
Passò dal fruttivendolo più vicino e rubò alcuni pomodori dalla cassetta davanti al negozio, senza esser visto e quando fu abbastanza lontano se li buttò addosso ridendo forsennatamente e fischiando.
Bu bu, sei ridicolo, non ti vergogni?





venerdì 22 novembre 2013

A proposito delle impronte sulla sabbia bagnata













Ogni solitudine se si guarda indietro troverà qualche traccia d'ipocrisia e qualche impronta di piedi umidi di codardia.

sabato 9 novembre 2013

A proposito delle ruote nella neve - I

Aprì la porta del piccolo locale facendo suonare il campanello che avrebbe avvertito il titolare dell'arrivo d'un nuovo cliente e vi entrò, senza molta convinzione.
Si trattava d'un locale costruito da non più di due anni.
Cercò invano di ricordare cosa vi fosse al suo posto quando, circa dieci  anni prima aveva lasciato i propri natali al sud,  per cercare fortuna dalla parte opposta del Paese.
Il locale era vuoto, così  senza aprir bocca sedette sul sedile innanzi al lavello, come la sottile voce da dietro al separè gli aveva indicato, calma e ferma.
Tolse gli occhiali e li poggiò su un tavolino.
Un minuto dopo aveva perso completamente il controllo della propria testa.
Sentiva il getto caldo massaggiargli la cute della fronte, della testa e della nuca, guidato da due mani esperte e precise, dai movimenti ripetuti con la  cadenza della rara pazienza, del talento umile, poco consapevole di se eppure animato dall'antico segreto d'una securtà delicatamente severa, non priva d'una ruvida e quasi selvatica dolcezza.
Quando le mani restituirono la testa al giovane, nello specchio apparve una capigliatura color miele -scuro a fiammifero che lasciava scoperta intera l'intelligente fronte ampia, offrendo alla vista di tutti la delicata bianchissima nuca, arrossata dopo la seduta, senza riservare spazio all'immaginazione circa le linee del cranio.
"Con la testa quasi nuda,  sarà un gioco da ragazzi leggervi i tuoi pensieri attraverso" disse la voce sottile con un tono privo della sia pur minima sfumatura di scherzo o d'ironia.
Cercò gli occhiali, l'inforcò e trasalì arrossendo violentemente alla vista della figura in piedi alle proprie spalle rimandata dalla lastra di vetro.


Continua.....

martedì 5 novembre 2013

Elucubrazioni stradali ovvero carmen burano nel vento piovoso.

Che strano tornare negli stessi luoghi dopo esser stato  via per un pò e trovarli uguali eppure molto diversi.
Che strano, sentire le stesse identiche emozioni, ma acuite, più dolorosamente mature di neanche moltissimo tempo fa; di quando  erano appena nate e cercavi di sopprimerle, o forse non erano ancora nate e cercavi invano di ucciderle prima che nascessero.

Che strano immaginare ancora delle corse notturne su treni mai presi, e fantasticare di tristi viaggiatori sconosciuti, e di incontri casuali che non avverranno mai.

Che strana questa rabbia improvvisa, questo scatto violento, questo buttare tutto all'aria e pensare che nulla, invero, valga davvero tutto questo immaginare, rimuginare, tentare di ricordare il non ricordabile,  tutto questo pensare, tutto questo non sai neanche tu cosa.

Invece non è strano, non  te ne stupisci affatto. Sai solo che il sentimento più forte e il più chiaro a imperversare furiosamente nella tua testa e nelle tue vene e nelle tue dita e nelle tue fibre,  e nel tuo stomaco non è certo dei più nobili o dei più delicati ora. No di certo.

E' che sei stanco, stanco di lasciarti sedurre dalle parole degli altri, di mettere ancora il piede nelle stesse tagliole, di ferirti, di sanguinare, di lagnarti, di esagerare, di fare il bambino lamentoso, di fare i capricci, di sbagliare, di non imparare mai la lezione, di non smettere mai di desiderare, di non smettere mai di essere così presuntuoso e megalomane, di lasciarti influenzare troppo dal modo di fare di quelli che a volte ti penti di aver incrociato per caso per strada. Stanco di avere la sensazione di star seguendo la falsa riga di qualcuno, di star inseguendo qualcuno che non si fermerà mai, lo hai sempre saputo. E al sorriso amarissimo che ti sale agli occhi,  parola scritta alcuna  e alcun  espediente potrà mai porre rimedio.

Non più.

E ancora la stessa sensazione  terribile di non aver fatto tutto quello che avresti potuto fare per realizzare qualcosa; di aver fatto sempre la strada sbagliata quando avresti potuto fare tutto diversamente, e tutto meglio; di non aver mai avuto una buona memoria, di non ricordare nulla della tua infanzia; di aver dormito per tutta una vita, di aver perso gli anni migliori, di non aver mai iniziato a vivere come fanno tutti, di essere ancora in letargo dalla vita e di non avercela mai fatta. Di aver cambiato addirittura modo di scrivere, di non aver mai saputo usare la punteggiatura, d'imitare troppo spudoratamente la punteggiatura e il ritmo di certi testi che hai letto, e che non finirai mai di leggere, che ti si sono incastrati tra viscere e fegato e che ti fanno venire la gastrite ogni volta che li riprendi. Di non aver profferito parola per mesi e di non esser riuscito a scrivere un rigo per troppo tempo. Di non aver pianto per mesi e di aver poi, miracolosamente allagato all'improvviso una tastiera, provocando un irrimediabile corto circuito.

La sensazione che tutto sia inutile.

Il proposito di non passare mai più notti intere a friggere tonnellate pesanti d'illusioni, ma preferire piuttosto  ripararti dalla tempesta tra le mura delle tua stanza uscendo fuori a correre  sotto la pioggia violenta.
Per non perderne mai più un solo sospiro, o parola, o confidenza intima, o modulazione della voce che non abbia inzuppato la tua maglietta prima d'ora.