sabato 15 dicembre 2012

Così ìmpari.


Quando avrò smesso di insanguinarmi i pugni contro le pareti;
quando sarò stanca di urlare senza voce;
quando avrò capito che è tutto inutile;
quando avrò smesso  di attingere sale per le ferite dai ricordi che ti porti ancora a letto;
quando avrò imparato il silenzio e la sottile arte dell’indifferenza;
quando per strada esibirò  il mio profilo migliore senza sbavature, e senza intemperanze;
quando sarò riuscita a fingere un equilibrio impeccabile;
quando finalmente avrò salvato tutte le apparenze,
e sarò  tornata a essere tutta d’un pezzo.
Quando sarò lontano , 
farò come se tu non fossi mai esistito.
E se sarà servito a qualcosa,
mi starà bene.

martedì 11 dicembre 2012

Storia d’un tossico degli odori ([1])


Parte prima
Accanto al volumetto de La Mite, sulla scrivania della giovane  gettatasi dal IV piano del condominio al civico 13 in via della Quintessenza, trovarono un  biglietto con su scritto a biro nera, in grafia chiarissima:
Sulla mia lapide inciderete: Una vita  senza macchia e una morte nell’infelicità assoluta. Ma rinascerà, per assaggiare tutti gli odori che non ha conosciuto la prima volta.
Un capannello di persone,  inesorabile e vociante. Il corpo esanime giaceva, nella  grande pozza  quasi nera, scomposto, la frangia ribelle bagnata sulla fronte rivolta al cielo e le labbra rosse e screpolate,  increspate da un lieve sorriso. Si sarebbe potuto giurare che su quel volto l’ironia stesse ancora sfidando tutti, compresa la morte. Gli arti inferiori, non allineati al tronco, nella  posa orribilmente innaturale della frattura multipla. Ogni dettaglio della figura femminile al centro dell’attenzione in quel freddo primo pomeriggio dicembrino,  pareva  sottolineare atrocemente il carattere brutale dell’ineluttabilità della morte. Presto arrivarono gli agenti della scientifica e gli spettatori iniziarono a scemare. Erano tre uomini e tre donne. Il più autorevole dei sei, un uomo sulla cinquantina, dagli occhi scuri e i capelli brizzolati ondeggianti sulla fronte ampia.  Impartiva ordini a tutti, con voce calma, accompagnando ogni parola con ampi gesti delle grandi mani ben fatte. Tutta la sua figura emanava un’aura di sicurezza, finanche mentre si rassettava l’impermeabile ghiaccio. Finito che ebbe  di dare istruzioni agli altri, l’uomo disse che della ragazza si sarebbe occupato personalmente. Conosceva il medico legale e gli chiese di poter assistere all’autopsia. In laboratorio, l’uomo fu  lasciato solo per un istante con la salma. Accertatosi di non esser scorto da nessuno, estratto un tampone, lo passò sulle labbra senza colore del cadavere. Con estrema calma richiuse lo strumento nell’astuccio e lo ripose nella tasca dei pantaloni. Il medico legale giunse e compì il proprio dovere.

Parte seconda
Facciamo un passo indietro di poco più di quattro mesi, e introduciamo finalmente il protagonista di questa storia. Si tratta di un uomo affatto singolare.
Ormai da molto tempo, entrava in qualunque negozio gli capitasse a tiro, quasi solo in cerca di profumi; usciva praticamente solo per quello; come per rispondere a un’urgenza fisiologica, o se preferite, per calmare le narici costantemente malate d’attesa. E si sorprendeva, così, a ciondolare distrattamente tra gli scaffali senza uno scopo apparente.
E solo una volta sicuro  di non esser osservato da occhi indiscreti, entrava finalmente in azione. Come quegli individui incensurati, completamente innocui, che fanno strepitare gli allarmi alle casse dei supermercati, per uno snack, o una stecca di chewingam caduti in tasca per caso. Fino alla fine, conducono il piccolo gioco con maestria. Lui era attratto morbosamente dagli odori, e a ciascuno faceva corrispondere un ricordo. Non è difficile intuire che il nostro s’avvicinasse  alla merce odorosa come ci si avvicina alle scatole di cianfrusaglie lasciate a impolverarsi in soffitta. Impiegava la memoria come una dispensa di sensazioni olfattive, e pareva non esistesse più al mondo un solo profumo che non riconoscesse. E dal momento che non esiste occupazione senza alcuna implicazione con gli odori, la sua memoria era a lavoro 24 ore su 24. Questa incessante attività mnemolfattiva non lo lasciava tranquillo un istante. Ovunque si trovasse, era come ossessionato dall’idea di poter perdere qualcuna delle sensazioni olfattive che l’aria  offriva alle sue narici smaniose. Passava le giornate a ordinare il magazzino mentale delle corrispondenze tra odori e ricordi. E non ne era mai soddisfatto. Vi notava sempre un angolo sguarnito o un’etichetta attaccata male. Finché un tardo pomeriggio di fine luglio, un tizio non lo sorprese  intento ad annusare una boccetta dalla forma vitrea di mezzo busto femminile. L’uomo colto in flagranza di reato, se ne spaventò a morte. Con uno scatto, posò la boccetta al suo posto, tentando di darsi un contegno. Ma aveva  cambiato istantaneamente colore. Non sapendo che fare, girò i tacchi per avviarsi all’uscita del centro commerciale. Ma il tizio, che non aveva smesso di fissarlo, gli disse qualcosa. Il tossico degli odori non capì, si confuse e tacque. Lo sconosciuto non insistette oltre, e lo lasciò andare, seguendolo tuttavia con gli occhi, mentre gli voltava le spalle con le narici ancora pulsanti delle figure olfattive lasciate a metà nell’area cerebrale dedicata.
Da quel momento, lo sconosciuto continuò a pedinare l’uomo dall’olfatto prodigioso durante tutti i suoi "spuntini". E non visto, continuò a studiarlo per mesi, addirittura sul posto di lavoro. Finché una sera di fine settembre non trovò un pretesto plausibile per avvicinarlo e metterlo alle strette.
Gli propose un colloquio di lavoro. L’uomo, precario per definizione, non poté rifiutarsi e accettò di seguirlo. Salì sulla sua auto. Non ci furono convenevoli.  Si andò subito al dunque. Voleva che lavorasse per lui, e subito, per giunta. Non avrebbe accettato un rifiuto, pena la morte. Ma in cosa sarebbe consistito il suo ruolo, di preciso? Il tipo losco gli fece un quadro veloce dell’affare. Accompagnava le parole con  sguardi significativi dai grandi occhi neri molto lucidi. Cercava  il profumo che lo facesse vivere di rendita fino alla morte. L’aveva cercato per anni invano. Fino ad allora, aveva ottenuto solo essenze volgari, di scarso pregio. Nulla di neanche lontanamente paragonabile al risultato cui ambiva. Egli  voleva l’essenza del dolore, s’era convinto che solo un’essenza simile sarebbe stata all’altezza del proprio scopo. Sarebbe stata l’essenza per antonomasia, la somma di tutte l’essenze del mondo in una. “Perché il profumo…”, diceva l’uomo alzando un po’ la voce, ma più parlando a se stesso che all’interlocutore  paralizzato dallo stupore, “…il profumo è la cifra dell’umano. E l’umano non è altro che un distillato del dolore. E tu, mio giovane amico, tu fai al caso mio perché in te hai un potere che a pochi è dato possedere. Tu sai riconoscere l’odore del dolore a chilometri di distanza." Il nostro capì subito che l’uomo faceva sul serio e nemmeno tentò di contraddirlo, incalzato dal terrore. Ma in cuor suo, il giovane, sulla trentina, ma  dall’aspetto dell’adolescente timido e un po’ impacciato, non sapeva nemmeno da dove iniziare per  gestire quella situazione e uscirne indenne. Si sistemò nervosamente gli occhiali dalla spessa montatura sul naso ed inspirò, con enorme preoccupazione. La grandezza di quegli occhi, nella loro insicurezza nocciola, appariva affatto sproporzionata all’età del titolare del viso in cui erano incastrati. Ed era il timbro sorprendentemente limpido, forse, a impedire a chiunque l’avesse sentita anche solo una volta, per caso, di dimenticare la sua voce. Una voce molto pacata, invero, eppure costantemente soggetta alla  tensione a una nervosa accelerazione dei propri ritmi; sempre in odor di difesa da tutto e tutti, e molto spesso  prodotta in una nota di soffusa ironia che gl’incurvava l’angolo sinistro della bocca e gl’inarcava i sopraccigli sugli occhi, sempre pronti ad   accigliarsi. E anche quello stringersi delle ciglia marrone scurissimo, rientrava a pieno diritto nella lista dei dettagli che contrastavano violentemente con la bonarietà d’insieme della minuta figura del giovane. E  sempre frutto dell’ironia di cui eran sottese tutte le sue azioni, erano anche i  rari sorrisi nei quali scopriva i denti bianchissimi e leggermente distanziati tra loro, esattamente come quelli di certi adolescenti refrattari all’uso dell’apparecchio. Ma la tensione nervosa spesso lo privava dell’unica qualità di cui davvero si vantasse: la loquacità. Così ancora una volta, si confuse, e tacque, a onta di tutti i pensieri che in quel momento gli si agitavano febbrilmente dietro la fronte, sulla quale iniziarono a fare la loro comparsa copiose piccole perle di sudore. Lo sconosciuto al volante aveva cessato di parlare. Ormai l’accordo era stato suggellato, anche se l’uomo dall’olfatto sopraffino non aveva profferito parola.


 Parte terza
Da quel giorno di fine settembre, il giovane non seppe più nulla dello sconosciuto e del suo singolare affare. Naturalmente, seguirono mesi di grande tensione per il nostro.
Cercava di continuare la vita di sempre, ma anche a lavoro avevano notato il suo turbamento. Lavorava tutti i giorni in un locale, dalle 21.00 alle 6.00. Sorridere e versare drink e preparare caffè e servire e conversare a comando, e ascoltare confidenze da estranei per ore,e rassettare e riordinare,  ed essere ipocritamente gentile, ormai gli riusciva perfettamente.
Nessuno avrebbe potuto sospettare il suo intimo disagio a ogni tono confidenziale, a ogni sguardo insistente.
Per essere precisi, più che vivere, egli non faceva altro che dissimulare tutto il tempo. E gli avventori del locale ogni notte, non gli si avvicinavano che per assistere allo spettacolo del sorriso ciondoloni intorno al suo collo esile sul quale le vene si ingrossavano sempre nello sforzo della finzione. E a ogni moto del capo il cappio nero gli si stringeva fino a che il viso non si faceva blu. Non passava notte senza che qualcuna non lo invitasse a uscire. Ma l’uomo da lungo tempo aveva smesso di fidarsi delle donne. Non era mai sgarbato con alcuna. Al contrario era irresistibilmente gentile con ciascuna, ma a nessuna si arrendeva, tenace come la più ritrosa delle fanciulle. Ormai da qualche tempo, tra le abitué era S., una dottoranda in Lingue e Letterature  slave in città per un corso sul legame tra odori e memoria, tenuto da un tale prof. Harry Bersgon. Sulla trentina, mora, capelli cortissimi e occhi scuri, S. non era proprio quella che si definisce una bella ragazza. Eppure aveva il potere di far pendere per ore dalle proprie labbra il proprio interlocutore. E tutto faceva pensare che tale potere le venisse dalla voce. Era d’un tono assai più basso della media delle voci di donna, e molti la trovavano estremamente gradevole. Ma S. per ironizzare, avrebbe continuato a raccontare a tutti l’aneddoto dello spasimante della coinquilina che al telefono s’era ingelosito credendola un uomo. Sin dall’inizio S. aveva provato grande interesse per il barman. Ma naturalmente il nostro non s’era mostrato più gentile con lei di quanto non lo fosse con tutte le altre. Ogni tanto ella s’illudeva d’un piccolo cedimento, ma s’ingannava puntualmente. “Le persone  che tagliano i capelli cortissimi sono più sfrontate della media, perché lasciano che gli altri vedano  i loro  pensieri pulsare attraverso il cranio.” s’era lasciata sfuggire ella, una volta, durante una delle loro conversazioni su tutto e su niente. E quella caratteristica esteriore li accomunava.
Una notte, come ormai da circa due mesi, dallo strano incontro con lo sconosciuto della faccenda del profumo del dolore, il nostro si sentì particolarmente inquieto. Decise di gestire la paranoia sbronzandosi. A onta del lavoro che faceva, il nostro tossico non reggeva minimamente l’alcool. Così gli bastarono pochi bicchieri per perdere la cognizione della realtà. Non s’accorse nemmeno del tizio che, appena arrivato,  l’osservava da un angolo, immerso nella penombra e sorseggiando un liquido bluastro, con un sorriso poco rassicurante. Il tipo si godette tutta la scena che seguì. Il giovane barman ormai completamente sbronzo non si reggeva più in piedi. Vaneggiava ormai nell’ilarità dei pochi superstiti nel locale. Da una finestra iniziavano a filtrare le prime luci della pre-alba. A un tratto si sentì le mani piccole e fredde di qualcuno sugli occhi e si girò di scatto. La solita stangona gli sorrise con piglio civettuolo. Non vista, anche una mora dai capelli a fiammifero, dal viso cupo e  qualche sbavatura di nero all’attaccatura delle gote, assistette alla scena, in silenzio. Ma pareva seguirla  con molta curiosità, a giudicare dagli occhi spalancati. E neanche questo particolare sfuggì, all’uomo che sorseggiava soddisfatto il suo drink bluastro.
Al mattino al risveglio nel proprio appartamento,  non era solo. Udì una voce dall’inflessione marcata chiamarlo dalla cucina. S’alzò dal letto, poggiò i piedi sul parquet, e a fatica impartì alle gambe pesanti l’ordine di condurlo dall’ospite. A tenerlo sveglio durante il tragitto fu solo la scia del profumo del caffè appena fatto. Diede un’occhiata alla donna con la quale aveva passato la notte e non la riconobbe. Apprese solo allora d’esser alla presenza di C.N.
Era molto bella e nessuno avrebbe potuto dire di no a quel corpo perfetto, al morbido miele delle onde sulle spalle e a quella bocca volitiva. Tra le altre cose notò che mescolava la cadenza americana a quella romanesca con perfetta disinvoltura, senza preoccuparsi affatto dell’effetto comico dell’insieme. La osservava mentre tentava di ricordare invano qualche particolare della notte appena trascorsa. Alla fine dovette arrendersi. La qual cosa non dovette evidentemente far piacere a C.N., a giudicare dal rumore sordo della porta dell’appartamento che si richiuse alle sue spalle facendo tremare anche la tazzina tra le mani del giovane. Rimasto finalmente solo, tentò di fare mente locale delle cose da fare in quella giornata iniziata in modo tanto inconsueto. Per tentar di smaltire la sbornia colossale, bevve quanto più caffè avrebbe potuto  contenere il suo corpo. Ma era a pezzi. Aggrappato al water dovette sputare anche l’anima. Ma a un tratto s’accorse d’una mail di S. ricevuta già dalla notte:
Per favore, vieni prima delle 15.00, da me, per l’addio. S.
Si ricordò che gli aveva accennato, una notte, dell’imminente conclusione del corso che stava seguendo.
Aveva meno di mezz’ora per arrivare a casa di S. Si vestì alla meglio, si gettò il cappotto sulle spalle senza infilarlo e corse fuori. La via in cui abitava la giovane era a pochi isolati. Arrivato a destinazione, s’accorse che S. aveva lasciato la porta aperta. Entrò e la voce ferma e bassa di S. lo chiamò, dalla camera da letto-studiolo. Era sola. Dalla soglia la vide dalla porta aperta della piccola camera, in piedi sul davanzale della finestra.
“Svelto, prendi la busta sul tavolino alla tua destra, prima che sia troppo tardi”.
L’uomo la guardò mentre il terrore iniziava a dominarlo. In un attimo si coperse di sudore. Non disse nulla e obbedì all’ordine. Prese la busta e la mise in tasca. L’avrebbe letta solo qualche ora più tardi. S’udì una risata strana, un fruscio di vesti, ma fu tutto un attimo. Un tonfo sordo. Non avrebbe potuto salvarla in ogni caso. Ella aveva calcolato tutto alla perfezione perché lui la vedesse  un’ultima volta senza poterle però  rovinare il gioco. Non sapeva cosa fare. Gli sembrò tutto un incubo. Era tutto troppo grottesco per esser vero. Sperò d’esser solo preda dei fumi dell’alcool. Ma non era così. S. s’era gettata davvero dalla finestra della sua piccola camera da letto-studiolo. Non era più. In strada cominciava già ad accorrere la gente. Presto sarebbe arrivata la polizia a rovistare nel suo appartamento. A questi pensieri gli sembrò che il suo corpo stesse assumendo la pesantezza del piombo. Non seppe trovare altro di meglio da fare che andarsene. Non chiuse nemmeno la porta. Del resto ella l’aveva lasciata aperta prima di gettarsi nel vuoto. Arrivò in strada e gli sembrò fosse tutto una brutta ripresa d’un telefilm poliziesco americano. E  la scena era agghiacciante e tutte le persone  attorno esibivano entusiaste  l’espressione degli sciacalli in agguato. Non resse oltre allo spettacolo. Se n’andò con le mani in tasca, il mento sul petto, gli occhi asciutti e dolenti. Il cuore gonfio delle lagrime che pungevano le palpebre senza poter uscire. Vagò per ore, dimentico di se e ancora incredulo. Si ricordò della busta. La prese con un gesto di rabbia rischiando di perderne il contenuto.  Nella busta erano un biglietto scritto in caratteri minuti molto fitti e un manoscritto di poche pagine riempite davanti e dietro. In cima alla prima era leggibile il titolo “Appunti e istruzioni per scrivere  la Storia d’un tossico degli odori.” Spiegò il biglietto e lesse:
Stanotte avrei voluto chiederti d’uscire, ma eri già in ottima compagnia. Buon divertimento, e complimenti a lei, scommetto che per averti convinto, deve essere davvero una donna bellissima e libera, di quelle che spariscono dopo il primo incontro  e che ti fanno pentire di non aver chiesto loro il numero. Ti auguro tu possa trovare un giorno la donna  capace di guadagnare di nuovo la tua fiducia. Goditi la vita, godila come un pazzo, se non lo hai ancora mai fatto. Godila anche per me, d’accordo?  P.S.: Grazie dei drink a scrocco, come barman sei insuperabile. Mi mancherai, quando sarò via. Ti voglio bene.
S.

Note
Perdonerete, egregi signori, le intemperanze di tono nel racconto, ma quello che avete appena letto  è  il resoconto allucinato  redatto da un uomo sconvolto.
Si tratta, nella fattispecie, di un tributo alla signorina S.M., della quale ho esaudito le ultime volontà, attingendo dal manoscritto di suo pugno intorno alla vicenda di cui, suo malgrado, fu la vera protagonista. Sue sono tutte le descrizioni a mio carico, nonché tutte le analisi più lucide su fatti che in certo modo, in parte, ella conobbe dalla mia stessa bocca.
Un contributo determinante nella stesura delle presenti memorie m’è venuto dal signor O.K., il capo della scientifica, nonché mente del programma RPD, che non ho mai più rivisto e del quale non ho saputo più nulla, dal giorno del decesso  della signorina S.M. Se non altro,immagino sia l’unico ad aver tratto profitti da tutta questa vicenda.  Chiunque ritrovi il presente manoscritto, è libero di farne quel che preferisce, ma volendo farmi cosa gradita, potrebbe tentare di farlo pubblicare da un editore. Per motivi che non riporto, non mi è più possibile occuparmene personalmente. Grazie in ogni caso.
C.P.
10 dicembre 2012, cittadina di M.


Nota del traduttore
Il testo presente è una delle pubblicazioni presentate al convegno sulla Ricerca mondiale intorno ai suicidi, tenutosi a Providence lo scorso dicembre 2023. Schematizzando, il rapporto finale della ricerca ci ha indotti a sostenere che non si dia alcuna possibilità di produrre una casistica di motivazioni e di concatenazioni tra cause ed effetti che spieghi il sensibile aumento di suicidi negli ultimi vent’anni. I fatti ci dimostrano piuttosto, che si danno casi di suicidio dei quali non si può fornire alcuna spiegazione razionale.
 











[1] Testo tradotto dall'italiano del manoscritto rinvenuto nell’appartamento del signor C.P., in via ******, nella cittadina M.  Friedrick Lovecraft  Poe, The walking deads Review Bollettino filosofico N 50-Settembre 2023, Providence (N.d.A) 







































































sabato 8 dicembre 2012

De competizione.

E’ tutta una dannatissima competizione, sin dal primo istante che ci si affaccia a questo mondo.

Sarà per questo se non mi è piaciuto mai più di tanto.
Non mi divertivo durante le verifiche in classe, o quando ci si affannava ad alzare la mano dal posto.
E' una luce oscuramente ferina quella che s'accende negli occhi umani un attimo prima che si sbranino per arrivare primi.
Ho sempre amato i cantucci solitari, al riparo dalle accelerazioni indesiderate del battito cardiaco, e dei visi fatti di brace senza un istante di preavviso, dalle emozioni violentemente importune.
E invece mi tocca il confronto forzato continuo.
L’incessante competizione che snerva.
Per ogni sciocchezza.
Finanche camminare sulle strade delle città all’ora in cui tutti si recano al lavoro richiede un minimo di competitività.
A pensarci bene, “essere competitivi” è l’espressione più inflazionata del momento.
Nessuna formazione scolastica senza la giusta carica di competitività. Nessuna vita universitaria.
Nessuna carriera professionale. Niente.
Né si può sperare che la sfera dei sentimenti  sia immune da questo terribile gioco di passioni e d’invidie.
E’ questa la competizione più crudele.
Quando attenti alle difese d’un cuore, è inevitabile dover fare i conti con innumerevoli fantasmi più o meno potenti, ma  tutti terribilmente vivi e vegeti. Tutti pericolosamente caricati della competitività bastevole a farti fuori.
Dal passato, dal presente, e dal futuro, eserciti di sconosciuti ostacoleranno qualunque disegno di grandezza del quale ti stia affannando  sgraziatamente a sporcare il grigiore dei tuoi giorni alienanti.
Nella solitudine delle  veglie  notturne forzate e dei giorni di stanchezza assonnata a occhi aperti.



venerdì 7 dicembre 2012

Scrivilo a caratteri viscerali.



Guarire.
Ma il problema è se d’uscire da una malattia, non si ha alcuna voglia, e anzi si teme il momento del ritorno alla salute, neanche fosse la morte.
Quasi come quando conviviamo per mesi col sospetto d’un male, vago eppure assassino,che ci ruba il sonno, l’appetito, la concentrazione; ma poi quando scopriamo ch’era infondato, ci sentiamo quasi delusi. Come se insieme al dubbio, ci venisse a mancare qualcosa cui ci eravamo aggrappati troppo saldamente forse. Come se avessimo sempre bisogno d’un pretesto all’altezza dell’ansia che ci attanaglia la gola. Quasi come se cercassimo una scusa per non sentirci troppo vigliacchi a desiderare la fine.
Eppure, dalle malattie delle quali siamo solo portatori sani, non guariremo mai, questo è il problema.
E allora, non ci resta che conservare il bacillo originario nell’incubatrice del corpo e alimentarlo finché la malattia non ci deturpi orribilmente ogni millimetro delle membra.
Piaghe, pelle viva, sangue,  viscere doloranti e livide.
Lo chiamano fuoco di sant’Antonio, ma naturalmente è solo un simbolo.
Ognuno da al proprio male in incubazione il suo nome.
Noi non lo abbiamo e ci contentiamo.
Noi non lo abbiamo e ne moriamo.
A fuoco lento.



domenica 2 dicembre 2012

Paralleli e intersecati.


Capì che la pateticità di quel vagheggiamento, omai, aveva raggiunto, sì e no, ma più sì anzichenò, il massimo grado, e che doveva ridimensionare tutto, o meglio, annullarsi lei stessa, possibilmente.
Capì, in buona sostanza, che il peso di un Nulla gigantesco le gravava sul cuore, da un tempo non meglio precisato.
E  un peso del genere  scaverebbe una galleria di disagio in qualunque essere, a meno di  non essere alieni.
Un Nulla potrà assumere le fattezze più care, ma non cesserà per questo d’essere Nulla.
Che sia un incontro atteso per mesi, preceduto dalla corrispondenza più ipocritamente sincera, e sfociato in un  susseguirsi di silenzi imbarazzanti.
Quelli dell’ignoranza, della stupidità, dinanzi al sorriso amaro d’un uomo di poco più di 30 anni, già vecchio, e della sua conoscenza che non si limita alle citazioni de’ bei libri di filosofia e de' bei poeti dell’orrore.
Del disincanto d’un coraggio avvilito e messo in carcere da criminali mimetizzati tra gli agenti del disordine.
Le divise stirate e inamidate della crudeltà senza motivo, dei calci ai paria dell’universo, sulle fredde panchine della povertà e della disperazione nera.
Per chi non ha più parole, nessun gioco.
Lo guardava e basta. Senza riuscire a emettere suono.
E anche dopo molto tempo, quando la parola ritornò a riempirle violentemente le dita e la gola, si chiese a lungo se avrebbe potuto cambiare quell’epilogo tragicamente patetico, e comico quanto mai, se solo il flusso copioso che ora la pervadeva di sciocchezze le fosse giunto in tempo almeno per il commiato.
Ma non lo seppe mai. Né avrebbe mai ricevuto una risposta da quella fenice dagli occhi votati a perdere, di quella tristezza castana che continuava a stringerle il cuore anche nel ricordo.
Né, dopo molto tempo, sarebbe cambiato quel Nulla, pur avendo mutato modo di scrivere, e colore e taglio degli occhi e dei capelli, e voce, e ampiezza  della fronte,e modo del viso d’accogliere le emozioni arrossendo violentemente, e libri nello scaffale, e odio contro il mondo, e modo di rapportarsi all’altro sesso.
A poco sarebbe valso l’inizio promettente, poco tempo addietro.
Non era l’inizio di qualcosa, ma solo mera bontà, quella che aveva spinto l’ultimo Nulla ad avvicinarlesi con sorriso mesto e pacato.
E le parole intense del primo convegno tanto a lungo e ardentemente agognato erano state solo un incantesimo. Ma non significavano proprio alcunché, purtroppo.
E quella piccola bella parola ripescata dal passato e trascritta sul presente, quel “Vorrei”  tramutato in un nuovo gioco di parole reso più amaro dal peso del tempo trascorso, e regalato alla sua immaginazione sempre troppo febbrile per distinguere subito i veri contorni del reale, nemmeno quella aveva qualche significato che potesse valere il vagheggiamento sfrontato dei suoi lambiccati  viaggi cerebrali.
“La lotta è impari, e non imparì mai.”si disse e iniziò il secondo tempo del suo ennesimo film grottesco e dal finale triste. Con tanto di occhi nocciola,saggiamente adolescenti dell'età adulta ferita. E sadici.

Dialogo.


Le disse che di lei si sarebbe fidato, che se anche era sempre stato ingannato, in passato, ora aveva deciso di smettere di avere paura di soffrire ancora.
Le disse che il freddo che s’era imposto per tutto quel tempo, gli aveva fatto perdere sensibilità al cuore e alle mani, ed era solo per quello se non allargava le braccia più a nessuno da tanto.
Le disse che era stanco, e che era giunto l’inverno in cui non voleva più lasciarsi congelare, con la schiena schiacciata al muro freddo.
Le  disse tutto guardandola negli occhi, con i suoi, enormi, nocciola, dalle ciglia scure, da dietro gli occhiali spessi, dai quali lei aveva paura non sarebbe mai più risalita per quanto avesse fatto.
Lei gli disse che il suo affetto non era egoista, e che era sinceramente caro al suo cuore.
Che il suo ritmo respiratorio, omai, si  regolava  sulle parole che lui aveva scritto e scriveva senza stancarsene, sui ricordi che gli rubava, senza troppi complimenti, e sulle sue metafore appassionate o tristissime nelle quali notava come in fiumi lucidi, già da un pezzo.
Ma, naturalmente, fu tutta un’invenzione della immaginazione di lei, che a furia di ricacciare indietro l’amore impellente che urgeva d’uscire e di raggiungere chi lo aveva suscitato, finì col morire strozzata.
A occhi ancora aperti.