Sarà per questo se non mi è piaciuto
mai più di tanto.
Non mi divertivo durante le verifiche
in classe, o quando ci si affannava ad alzare la mano dal posto.
E' una luce oscuramente ferina quella
che s'accende negli occhi umani un attimo prima che si sbranino per arrivare
primi.
Ho sempre amato i cantucci solitari,
al riparo dalle accelerazioni indesiderate del battito cardiaco, e dei visi
fatti di brace senza un istante di preavviso, dalle emozioni violentemente
importune.
E invece mi tocca il confronto forzato
continuo.
L’incessante competizione che snerva.
Per ogni sciocchezza.
Finanche camminare sulle strade delle
città all’ora in cui tutti si recano al lavoro richiede un minimo di
competitività.
A pensarci bene, “essere competitivi”
è l’espressione più inflazionata del momento.
Nessuna formazione scolastica senza la
giusta carica di competitività. Nessuna vita universitaria.
Nessuna carriera professionale.
Niente.
Né si può sperare che la sfera dei
sentimenti sia immune da questo terribile gioco di passioni e d’invidie.
E’ questa la competizione più crudele.
Quando attenti alle difese d’un cuore,
è inevitabile dover fare i conti con innumerevoli fantasmi più o meno potenti,
ma tutti terribilmente vivi e vegeti. Tutti pericolosamente caricati
della competitività bastevole a farti fuori.
Dal passato, dal presente, e dal
futuro, eserciti di sconosciuti ostacoleranno qualunque disegno di grandezza
del quale ti stia affannando sgraziatamente a sporcare il grigiore dei
tuoi giorni alienanti.
Nella solitudine delle
veglie notturne forzate e dei giorni di stanchezza assonnata a
occhi aperti.
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